Di Venere: nascita di un ospedale

L’ospedale Di Venere di Bari-Carbonara, nato come Opera Pia nel lontano 1886, ha una storia che va raccontata. Comincerò da Carbonara, IV municipio di Bari e luogo in cui sorge il nosocomio.
Anno domini 1156. Uno spettrale ammasso di macerie: ecco come doveva apparire la città di Bari dopo che Guglielmo il Malo l’aveva rasa al suolo. Obbligati a lasciar la città, i baresi si disperdono nei paesi vicini tra cui Carbonara. Sull’origine del luogo non vi sono certezze. Pare che a fondarla sia stato Boemondo d’Altavilla, primogenito di Roberto il Guiscardo. Correva l’anno 1091, e a sei chilometri da Bari, sulla strada che portava a Norba, l’antica Conversano, c’era un piccolo bosco di querce con al centro “un monastero ed una chiesa sotterranea – scrive il Beatillo – abitati da alcuni penitenti dediti ad una vita rigorosa ed austera”. Attratto dall’amenità del luogo, Boemondo vi fece erigere un castello attorno al quale, in seguito, si sviluppò il borgo. Nel 1464 Ferdinando I nomina Giovanni de Affatatis barone di Carbonara per essersi “adoperato a far ridurre la città di Bari alla divozione di esso sovrano”. Il barone è un brav’uomo, rispetta i suoi sudditi e alla bisogna è pronto ad aiutarli. Acquisito il casale lo affranca, lo migliora, lo solleva, come scrive il De Marinis (Memorie storiche di Carbonara di Bari), “da una trista miseria”. Tra la fine del XV secolo e il primo quarto del XVI, il Regno di Napoli è oggetto di contesa tra la Spagna e la Francia. “Le guerre – racconta Bisanzio Lupis, un cronista coevo – ci immiserirono a tal punto da restar dispopulati di homini, di robbe, denari et honore”. Nel corso dei secoli il feudo passa ai Rogadeo, ai de Rubeis, ai Caracciolo, ai De Angelis, ai Pappacoda, ai Filomarino. Il 24 gennaio 1799 i francesi conquistano Napoli e fondano la Repubblica Partenopea. Sul “Monitore Napoletano” del 2 febbraio 1799  si legge: “Siam liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di libertà, e di uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a’ popoli liberi d’Italia, e d’Europa, come loro degni confratelli…”. Ma Carbonara, istigata da don Rocco Dentamaro, si schiera con i sanfedisti.
Picaresca è l’avventura di quest’uomo, più di spada che di chiesa, che con Palmo Abbinante detto “Musse de lepre” e Sabino Partipilo detto “Accidagaddine” inducono i modugnesi ad abbattere l’albero della libertà. La reazione è immediata: il 4 aprile 1799 le truppe del generale Broussier attaccano Carbonara e la danno alle fiamme. Condotti a Bari, tredici carbonaresi tra cui “Musse de lepre” e “Accidagaddine” vengono fucilati nel cortile del Castello. Con l’Unità d’Italia il paese diventa un municipio e partecipa ai fermenti del secolo. Anno domini 1886: la signora Rosa Di Venere (1832-1917), con i lasciti dei suoi fratelli, fonda l’”Opera Pia Di Venere”. La gentildonna è coniugata con Gaetano Ricchetti da cui prende il nome l’omonima biblioteca barese. “giureconsulto operatore di carità vissuto solitario e libero come un antico sprezzante i vari onori nella visione di un alto ideale di vita”, don Gaetano vorrebbe dare ai giovani la possibilità di approfondire le loro conoscenze: sarà la moglie a realizzare il suo sogno. La fondazione della Biblioteca si deve, infatti, a un generoso lascito della Signora in memoria del marito. Donna Rosina – così la chiamano in paese – ha il cuore tenero, ma sbaglieremmo a immaginarla debole. Chi la conosce sa quanto sia fiera, tenace, combattiva. Ha progetti ambiziosi: accogliere, curare, educare, insegnare: una sfida impossibile per quei tempi, soprattutto per una donna. Con l’aiuto del fratello conferisce all’“Opera Pia” l’eredità famigliare, avviando corsi d’istruzione per le ragazze bisognose e offrendo rifugio agli orfani, ai poveri, agli anziani, agli ammalati. Peculiare, per la riuscita del progetto, fu la presenza delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli che vissero coi poveri e patirono coi vecchi giorno e notte, estate e inverno: e al sopraggiungere dell’ora estrema consolavano, benedicevano, accendevano speranze.
Alla disfatta di Caporetto, 24 ottobre 1917, seguì la tragica odissea dei profughi a cui l’”Opera Pia” spalancò le porte. Anche in questa occasione l’operato delle Suore si rivelò determinante. Primo settembre 1923: a Carbonara viene inaugurato l’”Ospedale Di Venere”. La struttura è moderna, spaziosa, straripa di luce; ha un direttore sanitario, un assistente, un medico specialista, ventiquattro dipendenti, un gabinetto radioscopico e attrezzature operatorie. In pochi anni, grazie alla bravura dei medici, degli infermieri, degli amministratori l’Ospedale si afferma; ma la tragedia è dietro l’angolo: il primo settembre 1939 esplode il secondo conflitto mondiale che farà dire a René Char: “Non apparteniamo a nessuno, se non al lampo di quella lampada ignota, inaccessibile, che tiene svegli il coraggio e il silenzio”. L’8 settembre 1943 un brivido scuote la Nazione: il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la lotta, ha chiesto l’armistizio. Un mese dopo gli Alleati sono a Napoli. “Quando era una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa”. Ora che la città è caduta “che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. E’ il destino dell’Europa di diventare Napoli. Se rimarrete un po’ di tempo in Europa, diverrete anche voi napoletani”. Così l’ufficiale-scrittore Curzio Malaparte, racconta Napoli ad un perplesso generale Cork.

Negli anni Settanta, grazie alla legge Mariotti sulla riforma ospedaliera, il Di Venere diventa un “Ospedale Generale Regionale” con reparti di eccellenza e quasi mille dipendenti. Per effetto della stessa legge l’’”Opera Pia” è obbligata a dismettere l’attività ospedaliera. Le rimarranno il padiglione di fine ‘800 con le relative pertinenze, i suoli in contrada sant’Angelo, e le attività di assistenza agli anziani. Dispiace che le figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli non siano più presenti in Ospedale. Colmare il loro vuoto è impossibile, tuttavia, una schiera di “Angeli bianchi” – così gli ammalati vedono i “Volontari in Ospedale” dell’associazione Bethesda di Bari – si aggira da un quarto di secolo tra le stanze del dolore: elargendo sorrisi, carezze, strette di mano. Se il fine ultimo dell’uomo è imparare ad amare, la dedizione ai sofferenti dei Volontari di Bethesda si muove in quella direzione. Non ho saputo resistere alla tentazione di riportare qualche riga della bella descrizione che l’avvocato De Marinis fa del padiglione ottocentesco dell’”Opera Pia Di Venere”: “Chi dalla gran piazza Umberto, muovendo per la strada Ricciotti (oggi via Ospedale Di Venere), una volta detta di Modugno, s’inoltri al di là delle mura del paese per altri metri 200 in circa, e si volga poi verso il sinistro lato, vedrà dispiegarsi davanti gli occhi uno spazio di forma trapeziale di are quadrate ventuna e metri quarantadue, tutto cosparso di aiuole, circondato di ombrifere acacie, e viburni, ed ugualmente diviso da un gran viale, in fondo al quale sorge maestoso e bello lo spedale, attiguo ad una sua non breve tenuta di olivi e mandorli. La gran porta principale mette nel vestibolo, dal quale si va immediatamente nella sala di aspetto, ch’è sul lato destro di chi entra, e nel chiostro, il quale si presenta di fronte, di forma rettangolare, lungo metri diciassette e largo tredici e centimetri venticinque. L’area ne è tutta lastricata, e, direi quasi, tappezzata di vasi di fiori”. L’avidità degli uomini ha condannato l’istituto a un avvilente oblio per cui or versa, seppure attivo, in miserrime forme.

 

Sergio Ricciuti

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