Finalmente, il grande giorno era arrivato.
Era l’otto Febbraio, ma sarebbe potuto essere un qualsiasi altro dei trecentosessantacinque giorni dell’anno.
Quel giorno, l’avevo atteso con trepidazione e ansia: numerosi i pensieri che si affastellavano nella mia mente, impegnata anche a ripercorrere gli avvenimenti, che con ritmo incalzante, lo avevano preceduto.
Dalla prima volta che ero entrato nella segreteria dell’Associazione, al colloquio selettivo, al primo giorno di corso, alla conoscenza dei futuri colleghi, attraverso il racconto, a volte impacciato, ma pur sempre vero, di se stessi, delle proprie esperienze, dei problemi, delle difficoltà di approccio con gli ammalati, i cui atteggiamenti, erano esasperati dal Professore Tutor, che ne ingigantiva la loro depressione o ancor più, li dipingeva come “Mostri”, pronti a mandarci a quel paese o riluttanti nel voler dialogare con noi.
Era stata molto dura….e i ricordi riaffioravano.
Ripensai a quella volta, in cui il Professore, mi chiamò alla Cattedra. Si trasformò in un malato “psicopatico” e mi chiese di rivolgersi a lui. Ovviamente, la sua era una simulazione di una patologia nascosta, ma mi trattò talmente male, che quasi avevo voglia di non rivolgergli più la parola. Ho capito dopo, che i suoi consigli sarebbero stati molto validi, affinché potessi apprendere la via più breve ed immediata, per arrivare dritto al cuore di chi dovevo assistere.
E ad un’altra ancora, in cui dovendo simulare una visita, preoccupatissimo, mi presentai con il cellulare, sul quale avevo annotato quello che avrei dovuto dire, naturalmente, provocando la giusta ilarità dei colleghi.
Terminato il corso, dopo un lungo periodo di tre mesi, era cresciuta l’apprensione.
Avevo avuto la fortuna di accompagnarmi ad un ottimo tutor, che con tanta passione, applicazione e pazienza, mi aveva insegnato, in pratica, le tecniche di approccio psicologico e, soprattutto, una profonda Umiltà.
Quando mi comunicò che ero pronto, con circospezione, prese dal suo armadio la fatidica targhetta in tessuto, quasi fosse una reliquia, e mi disse di farmela cucire sul mio camice. E’ inutile dirvi lo stato d’animo in quel momento, un misto di soddisfazione e profonda commozione, di chi sente la responsabilità di quella gratificazione, come fosse un’investitura. La presi e la custodii gelosamente nella mia borsa.
La notte del martedì precedente al giorno X, non riuscii a dormire; l’adrenalina, pompata nelle mie vene, non faceva altro che eccitarmi, suscitando mille pensieri, mentre mi giravo e rivoltavo nel mio giaciglio.
Improvvisamente, giunsero le ore 15,00 del mercoledì fatidico. Iniziai la vestizione, indossando quel candido camice, sul quale, appuntata da una parte, c’era la targhetta con il mio nome e cognome e, dall’altra, la dicitura tanto desiderata: “VOLONTARIO”.
Mi sentivo solo, spaventato, mentre il cuore accelerato, sembrava uscire dal mio petto.
Entrai nella prima stanza, e con infinita umiltà, pronunciai la frase di rito.
Non dimenticherò mai la dolcezza di quella Signora, avanti con l’età, in precaria situazione di salute, che mi accolse quasi fosse mia nonna, e per la quale provai un affetto senza fine. Ella iniziò a parlare e, quasi come un fiume in piena, mi travolse.
Annaspavo, mi dimenavo, finivo sott’ acqua, ma riuscii ad emergere.

Era fatta, avevo imparato a nuotare…
Il sole era calato e la sera mi dava una sensazione di grande pace.

Giuseppe Vaglio

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