In libreria: Pietro Bartolo, Le stelle di Lampedusa, Mondadori ed. settembre 2018
Scrivo queste note sull’ultimo libro di P. Bartolo, Le stelle di Lampedusa, mentre mi riaffiorano con prepotenza in mente le parole di Hosseini “ Guardatevi allo specchio: i migranti siete voi, perché potrebbe succedere in qualsiasi momento qualcosa nelle vostre vite che vi costringe a fuggire” ( in: Preghiera del mare). Ancora una volta, questo recente libro del medico e scrittore Bartolo, Le stelle di Lampedusa, è la testimonianza dei dolori dei “ migranti”, dolori che le parole spesso non possono descrivere; perciò lui caparbiamente “mostra” le immagini dell’Orrore memorizzate nella sua usb, a chi vuole sapere, come Rosi, occasionalmente incontrato a Lampedusa e che da quelle immagini trarrà il film-documentario Fuocammare, Orso d’oro a Berlino nel 2016 o come il bambino che manderà i suoi giocattoli in dono alla ludoteca del poliambulatorio del dottore Bartolo, catturato dalla immagine del neonato a cui il medico, in mancanza di altro, era stato costretto a legare il cordone ombelicale con un laccio della sua scarpa. Il bambino, uno dei più piccoli della scolaresca con cui il medico era stato invitato ad interfacciarsi a Cassino, ne aveva ben compreso la lezione: siamo tutti uguali e tutti unici e irripetibili, ciascuno con la propria individualità e la propria storia. E con una dignità. Anche da morti. Le salme “ non sono corpi inerti, ma persone, …”. Il bambino, donando i suoi giocattoli, voleva “ dare una mano” a suo modo, perché a volte parole e immagini, come sapeva bene il dott. Bartolo, vanno a segno, soprattutto quando si rivolgono ai ragazzi,,,, perciò Bartolo considerava un privilegio irrinunciabile l’incontro con le scolaresche e non si sottraeva mai, tutte le volte in cui lo riceveva da una Scuola, ad un invito a raccontare la sua esperienza di medico di Lampedusa ai giovani. Così diventa emblematica l’osservazione che lui stesso guida i giovani spettatori del suo filmato a fare nella scuola di Cassino: mentre racconta della donna di colore proveniente da Mali, che stava partorendo nel caos di un recente sbarco e che lui aiuta durante il parto, scorre, sullo schermo dell’aula, l’immagine del bambino appena nato: ma non è la stranezza del laccio che lega il cordone ombelicale, l’oggetto su cui a Bartolo preme che si concentrino i giovani astanti, bensì il colore della pelle del neonato: tra il tanto rosso del sangue, spiccava il colore bianco della sua pelle, quella pelle che nel giro di poche settimane si sarebbe scurita, certo, ma intanto quella apparente anomalia, così comune tra i neonati figli di coppie di colore, stava lì a dimostrare che quando nasciamo siamo veramente tutti “identici”, “pelle e sangue, carne e acqua, gioia e dolore “. E che potremmo essere figli di chiunque: di un medico, di un ragazzo, di una donna del Mali. Un libro gradevole, che si presta ad una lettura immediata e toccante, semplice e vero: una storia che denuncia i maneggioni della politica, come l’indifferenza dei più, la gestione cieca e selvaggia dei centri di raccolta per il contrasto della migrazione in Libia, veri e propri “ centri di detenzione”, simili alla macchina mostruosa dei campi di concentramento, come l’inefficacia delle parole, che non servono per dire ciò di umano non ha più nulla. I “ barconi affollati” sono ormai troppo spesso per noi, “un oggetto unico” che, nonostante la sua tragica evidenza, si carica di una altrettanto tragica invisibilità, insieme a quello che percepiamo come un carico di ombre anonime. Siamo assuefatti al fenomeno, e adattandoci al “burocratese”, chiamiamo “ migranti”, “ richiedenti asilo”, “extracomunitari” quelli che non sono un amorfo collettivo, ma individui, uomini, donne, bambini, con un nome e cognome. Con una storia e un vissuto. Invece, le parole impersonali che adoperiamo per riferirci a loro, “definiscono” e “appiattiscono” e contribuiscono ad atrofizzare ogni nostra residua empatia. La volontà di Bartolo, è portare sì in primo piano una piaga contemporanea, quella della immigrazione, ma con una scrittura che ha una qualità in più rispetto a quelle destinate a creare le tante immagini sedimentate nell’immaginario collettivo; suo preciso intento è segnalare che il “ fenomeno” è un dramma che coinvolge direttamente ed indirettamente milioni di individui: chi emigra e chi non ce la fa e resta in un Paese lontano e aspetta notizie e soffre a distanza come e forse più di chi è partito. Non dunque un fenomeno anonimo nel suo essere “plurale”, ma un fenomeno la cui pluralità è fatta di singoli, immensi dolori, un fenomeno dunque da considerare non come di “ massa”, ma come il frutto ( e la causa) di una molteplicità di sofferenze, ugualmente immense e ingiuste per tutti, ma tuttavia diverse per ciascun protagonista e per i coprotagonisti a distanza. Da questo rovello deriva una scrittura che non è attenta al generale, e che rifugge dalla generalità … Così al centro di questo libro Bartolo si concentra su una piccola storia, quella di una bambina, (Anila) e della sua mamma ( Carla), (tutti nomi di fantasia, come l’autore precisa nei Ringraziamenti, alla conclusione del suo libro); di questa storia racconta le violenze subite da madre e figlia e la ricerca reciproca, che se per la bambina diventa spasimo fino a rasentare la pazzia, nella madre genera sensi di colpa assidui e bisogno continuo di rassicurazione dall’esterno, lacrime e noncuranza per il proprio corpo, che prostituisce mentre nel cuore ha sempre e solo lei… la sua piccola Anila. Bartolo le assume, entrambe, nella loro sofferenza particolare ed unica, ad emblema di quanto dolore possa nascondersi dietro quello che consideriamo un “ fenomeno”. Il “ fenomeno dell’immigrazione”, di cui ognuno di quelli che arrivano nel nostro Paese con la qualifica di “ migrante”, è parte, ma del cui dolore noi tutti, volenti o no, consapevoli o meno, dobbiamo sentirci responsabili. Con buona pace di ogni surrettizio mezzo che ci creiamo per tacitare la nostra (spesso cattiva) coscienza.
Marica Camarrone
Presidio Ospedaliero Giovanni Paolo II
Bari 12/02/2019
marica il tuo articolo è bellissimo.Si diceva che dei campi di concentramento del nazismo nessuno fosse a conoscenza ma di questi nuovi tutti sappiamo,non abbiamo alcuna giustificazione se non la totale indifferenza e egoismo.Spero che la coscienza di tutti noi abbia un sussulto anche se temo purtroppo che i prossimi anni non saranno facili.Ognuno di noi può fare qualcosa di molto semplice,SCANDALIZZARSI sempre e comunque quando sentiamo commenti razzisti,il silenzio talvolta può essere considerato complicità,sta a noi decidere da che parte stare.