A volte ho quasi timore ad entrare nelle stanze: il silenzio, la luce abbassata, i pazienti quasi assopiti, la sottile sensazione di sofferenza che comunque pervade il tutto e che è quasi invisibile, però lo senti che è impastata con i muri di ospedale, le attrezzature mediche, i monitor, i carrelli e i comodini con le medicine.
Anche questa volta è stato così. C’era un solo paziente, assopito, il letto più lontano, quello vicino alla finestra, era vuoto ed avevo quasi deciso di passare avanti quando, poi, lui ha aperto un occhio e mi ha guardato. C’era un uomo lì, nelle lenzuola, e certamente non potevo più andare via. Dovevo e volevo stare con lui, facendomi amico di uno sconosciuto.
Il mio nuovo amico ha iniziato subito a parlare, dopo che io mi sono presentato come volontario, dicendo che lui ai volontari era abituato, in particolare quando è stato a lungo in ospedale a Milano. Mi ha raccontato la sua storia medica, ha detto che sa che gli fa bene farlo, ha una malattia rara, un tumore poco conosciuto che non perdona quasi mai, perché non ci sono ancora farmaci che riescono a contrastarlo veramente. Si va per tentativi, con farmaci sperimentali che utilizzano solo alcuni ospedali specializzati, che presentano comunque diversa efficacia con diversi pazienti e che talvolta, dopo un primo periodo in cui sembrano funzionare, poi improvvisamente non lo fanno più, perché le cellule tumorali riescono a neutralizzali. È successo così ad alcuni suoi colleghi di malattia, che lui ha conosciuto solo per telefono, facendo parte di una associazione di pazienti con la sua stessa malattia, pazienti ai quali lui si era affezionato e che ha accompagnato con la sua amicizia fino alla fine. Poi mi ha detto di sé, che risiede a Taranto nei pressi della Concattedrale, che si è diplomato in ragioneria e che da giovane ha fatto molti lavori da precario, dopo che con la sua fidanzata avevano fatto sogni sulla loro futura famiglia. Che adesso è ancora fidanzato, e che lei ha avuto tanta pazienza. Ed ecco che, mentre parliamo, lei arriva e allora, dopo un po’, li saluto e li lascio e, in punta di piedi come sono entrato, esco per andare in un’altra stanza.
Anche in questo caso nella stanza c’è un solo uomo, ma questa volta è anziano, anche se molto giovanile, e mi dice subito che lui è appena arrivato e devono fargli tutta una serie di controlli, dopo che ne ha passate tante di situazioni di ospedale, con problemi al cuore, agli occhi, all’intestino, al fegato e ancora non basta. Inizia a parlare e mi racconta che ha un negozio a Bari, una antica armeria, ma che è un uomo fortunato, perché ha fede in san Pio (che, come è noto, quando interviene con dei miracoli, si manifesta con un profumo dolce e intenso) e in san Giuseppe Moscati e che un giorno, mentre gli era stato diagnosticato un serio problema al fegato e si trovava a casa, improvvisamente ha sentito un intenso profumo molto piacevole, simile a quello del Boro Talco, ha chiesto alla moglie perché stesse usando tutto quel Boro Talco e lei gli ha risposto che, il Boro Talco, non sapeva neanche se in casa lo avevano e comunque, subito dopo, il dolore al fegato è scomparso e, quando è andato a farsi visitare nuovamente dal medico che gli aveva diagnosticato il male al fegato, il medico gli aveva detto sorridendo che quella alla quale lui come medico stava partecipando era una storia bellissima che lo rendeva molto felice. Adesso, tra le altre cose, ha seri problemi di una copiosa lacrimazione agli occhi, gli si sono abbassate le palpebre e aspetta in ospedale che gli dicano, con tutti i suoi problemi, cosa deve fare.
In un’altra stanza c’è invece una donna, ancora giovane e che, come molti pazienti, è alla prese con il telefonino, forse per trovare un modo per far passare il tempo. Mi racconta che, a causa della malattia che le hanno diagnosticato, le è venuta la depressione e la paura, la paura di non farcela. Che ci sono momenti in cui le sembra di desiderare che tutto finisca e altri, invece, in cui sente che ha voglia di combattere. Pensa comunque che ora non deve più vivere come prima, facendo sempre sacrifici, ma piuttosto deve vivere cercando le occasioni per gustare la vita, come se ci fosse sempre qualcuno che le fa le coccole. Le dico, timidamente, che la paura non deve esserci, perché in fondo tutto quello che abbiamo, istante per istante, è un dono, è come se qualcuno ce lo stesse offrendo in quel momento, proprio per noi, e che dunque, se stiamo attenti e con il cuore spalancato, le coccole per noi ci sono in ogni istante, e allora, per farle vedere che è vero, le faccio un esempio raccontandole di una mia esperienza di questa estate, quando sono andato a trovare in Provenza le lapidi di alcuni miei diretti antenati (genitori della nonna di mia nonna) del 1700 e mi sono commosso perché io, senza quelle ossa che c’erano dietro quelle lastre di pietra, non sarei mai esistito e adesso non starei lì con lei a chiacchierare. Dunque, dal 1700 ad oggi, anche se io non c’ero, è stato tutto un dono dopo l’altro, per me, perché io ci fossi, ed anche ora, tutto quello che stavo vivendo era veramente un dono. È vero, mi risponde, però bisogna avere gli occhi disponibili ad accorgersene e lei vorrebbe proprio riuscire a farlo. Mi racconta che ieri, visto che si sentiva sola e depressa, ha deciso di fare una passeggiata nel corridoio del reparto e riprendere il tutto con il telefonino descrivendo quello che accadeva e che questo semplice gesto ha poi coinvolto tante persone che hanno riconosciuto che almeno nella serata c’è stato un po’ di movimento e l’hanno ringraziata. Si chiama Cinzia ed è messicana, anche se parla molto bene l’italiano ma con l’accento sudamericano, e si trova in Puglia perché suo marito è italiano e hanno due figlie. Mi ha detto che è rimasta molto colpita dal nostro incontro e dalle mie parole e che più tardi le racconterà su facebook alle sue amiche che ha lasciato in Messico. Mi ha anche detto che crede in un dio universale ma che diffida della religione perché in Messico ha trovato solo regole da seguire e costrizioni. Certo, le dico, però come sarebbe bello che quel dio universale che si trova chissà dove, invece improvvisamente potessimo incontrarlo e parlargli, come si fa con un amico a cui si vuole bene. Altro che costrizioni, diventerebbe una compagnia continua e sicura, forse meglio delle coccole, chissà.
Infine vado a trovare Dabo, uno studente della Guinea che sta per laurearsi in scienze internazionali, già ospite di questo ospedale in passato e che ha avuto ora un problema neurologico. Sono con lui tre suoi colleghi, uno studente di colore e due studentesse con il foulard sul capo, forse musulmane. Gli chiedo come va, mi sembra un po’ debole, comunque mi risponde, si solleva sul letto, mi sorride e mi sembra contento di far vedere ai suoi amici che qualcun altro va a trovarlo. Sto con Dabo ancora un po’, ma poi mi accorgo che stasera il tempo è proprio volato e così mi scuso, lo saluto e mi affretto verso la stanzetta dei volontari, per togliermi il camice e riprendere la mia vita ordinaria.
Quanta ricchezza di vita in un ospedale oncologico! E come è facile, in fondo, riconoscerLo!
Pasquale Colonna