E’ un pomeriggio caldo, la luce arriva timidamente dalle finestre del reparto e si posa sui volti e sulle storie di chi per tempi brevi o drammaticamente lunghi è qui per curare piccoli o grandi problemi.

In una stanza c’è Francesco, è bloccato a letto con una frattura del femore, Non è solo la frattura a dargli dolore, ma è una malattia ancora più grave che toglie le parole, che disarma: la disabilità. Francesco ha 16 anni, ma i suoi occhi sono vacui, i suoi sorrisi sono quelli di un bambino indifeso, di chi non sa cosa gli stia accadendo e di cosa gli possa capitare se al suo fianco non ci fosse la mamma. La mamma che gli sta a fianco ogni minuto della giornata, che ha scelto di avere coraggio, di non mollare e  di continuare a ridere per strappare un sorriso anche al suo pur sempre piccolo Francesco. Le sue parole, i suoi racconti sui momenti difficili, sui percorsi medici intrapresi, sulla vita quotidiana hanno dato un senso al mio operato. Perché impegnarsi nel volontariato non vuol dire semplicemente “fare” qualcosa per qualcun altro, ma vuol dire anche ascoltare, lasciare l’opportunità  a chi la sofferenza la tocca ogni giorno con mano di raccontarsi dando sfogo alle proprie pene. Non foss’altro perché ascoltare molto spesso è importante quanto prendere per mano un bambino e giocare  con lui, raccontargli una favola  canticchiare insieme.

Francesco e la sua mamma sono andati via, ma al loro posto sono arrivati un altro bambino con la sua mamma, un’altra bimba e poi altri ancora. E ogni volta i loro volti, le loro esperienze restano nel nostro cuore e con determinazione e buon umore porgiamo una mano, cercando di far sentire il nostro affetto, la nostra disponibilità. Perché ciascuna storia ha la sua verità e la sua lezione di vita.

Perché ogni bambino, ogni mamma conosce il dolore e qualche volta ha imparato a conviverci sperando che domani possa andare via.

Michela Guerra

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