Come tanti altri martedì, anche oggi sono qui nel reparto di “neurologia”.

Entro in punta di piedi nella prima stanza, qualche ammalato sembra che dorma, qualche altro è sveglio e al cellulare parla con qualcuno che possa forse lenire le sue ansie, le sue paure o forse possa rendere più sopportabile le sue solitudini in questo torrido pomeriggio di giugno.

Mi accosto ad una delle due ammalate che sembrano dormire, l’accarezzo e le aggiusto una ciocca di capelli incollati alla fronte. Le asciugo con un tovagliolo il sudore, l’accarezzo di nuovo. Ha la  mascherina dell’ossigeno e fa un po’ fatica a  respirare.

Al tocco delle mie dita apre gli occhi e mostra sorpresa, mi affretto a sorriderle per tranquillizzarla e le dico che mi chiamo Susy e sono una volontaria.

Rincuorata, ricambia il sorriso e mi siedo sul letto ai suoi piedi e rimaniamo per un po’ mano nella mano evitando di parlare per non farla affaticare.

Poi le dico che sarò di nuovo da lei per aiutarla a mangiare all’ora di cena. Il suo sguardo mi segue fino alla porta, poi mi volto e le mando un bacio.

Nella seconda stanza trovo una giovanissima donna che piange sommessa perché lei è li in un letto d’ospedale, mentre il suo primo bambino di appena pochi mesi è a casa dei nonni. Mi racconta della sua depressione, dopo il parto le capita di piangere spesso e teme di non essere una mamma forte e coraggiosa per il suo bambino.

La rincuoro e le dico che è un fatto normale, le gravidanze spesso prostrano una donna, specie se giovane come lei.

La sprono, con dolcezza, a parlarmi del suo bambino e lo fa illuminandosi di una luce e di un sorriso fresco come la sua stessa età.

Rimango con lei per un po’ di tempo e quando me ne vado  mi chiede se tornerò domani; le accarezzo la guancia e le strizzo l’occhio.

Il pomeriggio mi è volato girando per le varie corsie, fermandomi  un po’ qui e un po’ li dove penso e vedo che ci sia più bisogno.

Ma una gioia mista ad emozione la provo anche nel momento in cui riesco a far mangiare l’ammalato che da giorni rifiuta il cibo. Davanti al suo piatto finalmente vuoto prende coscienza che questa volta le mie parole sono scese giù fino in fondo al cuore ed hanno fatto centro.

Torno a casa con la temperatura che è ancora da Africa, sembra uno dei  miei tanti martedì in ospedale,  invece con me sto guardando scolpiti nei miei occhi i loro occhi e la speranza di aver lasciato in ciascuno un po’ del mio ottimismo ed un po’ della mia fede in Dio.

Susy

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