Mai prima del pensionamento avevo pensato di svolgere un’attività di Volontariato, perché durante i lunghi e duri anni di lavoro, l’insegnamento, la famiglia, la casa,  mi facevano attendere la pensione come a un agognato riposo. Ma la mia natura non contempla, l’inattività vera, né il concetto del cosiddetto “godersi la vita” ha costruito spazi duraturi in me. D’altronde non mi permetteva ciò neppure l’educazione ricevuta in famiglia né mai me l’ha permesso la mia sensibilità. Infatti, appena due soci di Bethesda e amiche – Teresa Macinagrossa e Silvana Sergio – mi hanno entusiasticamente parlato del loro impegno di volontarie al Cotugno prima e  al Policlinico poi, ho capito subito che avrei seguito il loro esempio. Mi sono così iscritta al corso formativo preliminare appena libera dall’insegnamento; mi sono anche resa conto che in ospedale ci sarebbe stato molto da fare. La vita ospedaliera la conoscevo, avendola provata come paziente sin dall’età di 10-11 anni e prima o poi c’era passata quasi tutta la mia numerosa famiglia d’origine. Ed eccomi qui.

Ricordo ancora quando, alla fine del Corso, la Segretaria Maria Pia Romeo chiese anche a me come alle altre colleghe di corso: “Ma tu, Gilda, dove vorresti svolgere il tuo servizio, in quale clinica convenzionata?” ed io le risposi: “Dove ci sono coloro che soffrono di più perché hanno perso la speranza di guarire o perché vi hanno rinunciato o perché non ritrovano la forza di combattere psicologicamente il male, o semplicemente perché non hanno motivazioni sufficienti per vivere”.

“Allora dovresti proprio andare al Padiglione D’Agostino”, concluse Maria Pia. E sono ancora al padiglione D?Agostino.

All’inizio pur motivata mi sono sentita inadeguata ed impreparata a svolgere il mio compito. Mi sembrava d’essere invadente ed inopportuna nei confronti degli ammalati, specie di quelli che, tutti tesi ad affrontare la propria malattia, non avevano voglia di parlare con una incerta volontaria; altre volte uno sguardo severo e critico mi ha fatto subito sentire indesiderata. Le emozioni che ancora ricordo, quando improvvisamente mi sono trovata in corsia un’ammalata, mi hanno palesato tutta una sfera di sofferenza e di bisogni  che non poteva essere sostenuta dal pur competentissimo e umanissimo personale medico e paramedico,  sia per la mole di lavoro che per il tipo di rapporto che ricorre tra paziente e medico curante. Il volontario è una figura che è solo “a latere” del paziente e di tutto.

L’altro personale che svolge un lavoro preciso oltre che retribuito. Il volontario ricopre il ruolo di prossimo, secondo quanto recita il logo dell’Associazione di Bethesda. Tra le tante pazienti visitate periodicamente, ricordo Caterina, attorniata da molti figli, che aveva dei capelli nerissimi e due occhi vivi che ti guardavano e gridavano tutta la sua disillusione nei confronti della vita e anche delle persone più care.

Ricordo che temeva che la sua dipartita avrebbe forse scompigliato i rapporti tra i suoi figli (tirati su da sola) a causa della spartizione dei beni.

Ahimè, sono passate numerose Caterina!

Di molto aiuto mi sono state le colleghe, specie Anita Poscia, Teresa Signorile, la responsabile della Clinica, Chiara Cavone. Da tutte ho imparato a pormi in manniera semplice ma diretta, in empatia, con umiltà ma anche con decisione, nell’intento di offrire con la mia presenza un’occasione di aiuto, la possibilità di permettere all’ammalato di esprimere il suo punto di vista sulla malattia e di essere compreso nella strada tutta in salita. Ho cercato di fare del mio meglio, ma so che ho ancora molto da imparare e da fare in questo cammino che è quello di farsi prossimo dei sofferenti.

 

Gilda Ferrari

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