Sono un volontario dell’associazione Bethesda di Bari. Il nostro compito è visitare gli ammalati e stabilire relazioni empatiche, ossia comprendere, ascoltare, calarsi nell’altro. E’ risaputo che un sorriso e una buona parola fanno miracoli. Il nostro sguardo non si ferma all’ammalato, va oltre: smantella preconcetti…, inocula speranze. Sapeste quante volte sono stato testimone di esperienze straordinarie “che non possonsi contare” nemmeno ai famigliari… Comunicare non è facile e i mezzi tecnici non ci aiutano abbastanza: il WhatsApp non può competere con la magia di uno sguardo, con l’unicità di un momento. C’era una signora, in medicina, che era inconsolabile. Interagiva con dei “si” e dei “no”…, non riusciva a distaccarsi dal problema. Nel congedarmi mi venne in mente Woody Allen. Le dissi: “Vorrei lasciarle un messaggio positivo ma non ce l’ho. Fa lo stesso se le lascio due messaggi negativi? La signora rise, cambiò umore e mi pregò di restare. A un ammalato dissi: “Sono un volontario” e lui, di rimando: ”Io no!”. Negli ospedali si possono fare degli incontri straordinari: ho conosciuto acrobati, musicisti, creatori di favole e sogni pronti a offrirti un aneddoto, un racconto, un’esperienza. Il tempo è la cosa più preziosa che si possa donare. Conviene farlo…, poiché “a chi ha (dà) sarà dato (…) e a chi non ha (dà) sarà tolto…” (Mt 13,12). Va detto, però, che occorre tatto perché il dire può far male…, molto male. Prima di entrare in una stanza, o in un reparto, dobbiamo chiederci: “Sono in grado di confrontarmi col dolore? Cosa posso dire a un giovane che ha un male incurabile, o a una madre che ha un figlio in fin di vita?”. In questi casi non si è mai preparati abbastanza, per cui non resta che pregare il Signore. Francesco d’Assisi lo invocava così: “Signore, fa di me uno strumento della tua pace. Dov’è l’odio, fa ch’io porti l’amore, dov’è l’offesa, ch’io porti il perdono, dov’è la discordia, ch’io porti l’unione, dov’è il dubbio, ch’io porti la fede, dov’è l’errore, ch’io porti la verità, dove sono le tenebre, ch’io porti la luce, dov’è la tristezza, ch’io porti la gioia. Maestro, fa che io non cerchi tanto: di essere consolato, quanto di consolare, di essere compreso, quanto di comprendere, di essere amato, quanto di amare. Poiché è donando che si riceve, perdonando che si è perdonati, morendo che si risuscita alla Vita”. Prima di morire il Santo chiese al medico: “Che ti sembra della mia idropisia?”. “Fratello”, rispose il medico, “con l’aiuto del Signore starai meglio”. Ma Francesco insistette: “Dimmi la verità, non sono un pusillanime, sai che amo la morte quanto la vita”. Allora il medico gli disse: “Padre, secondo la nostra scienza la tua malattia è incurabile. Penso che per la fine di settembre o ai primi di ottobre tu morrai”. A quel punto Francesco levò le mani al cielo e esclamò: “Sii benvenuta, sorella Morte!” (Da: Fonti francescane, Edizioni Francescane, Padova 1987).
Sergio Ricciuti