Un medico, un marito, un maestro di vita

12 novembre 2015, Ospedale Di Venere Bari-Carbonara, Reparto Chirurgia, stanza n. 7. La signora ha gli occhi chiusi e sussurra con insistenza un nome: Paolo…, Paolo… “E’ suo marito?”, le chiedo, per rompere il ghiaccio. “Era…Papà è morto diciannove anni fa…”- risponde la figlia.
Ma la madre le ruba la scena: “Chi siete…, cosa fate…, perché?”. Le rispondo che siamo Volontari di Bethesda, un’associazione tesa ad alleviare le condizioni psicofisiche degli ammalati attraverso l’ascolto. “Sono debole – risponde – ma ci terrei a presentarvi Paolo Pellegrini (1921-1994): un medico, un marito, un maestro di vita.
Paolo si laureò in Medicina e Chirurgia con 110 e lode nel 1945 e dal ‘57 al ‘91 fu Primario di Chirurgia Generale presso questo ospedale. Per lui curare non era un lavoro ma una missione, ricordo che passava le giornate tra la sala operatoria e le corsie con un vigore che stupiva. Non aveva orari: lui in reparto entrava al mattino e usciva a tarda sera dopo aver visitato, s’intende, ogni singolo paziente. Anche di notte… se necessario! ‘Un buon medico – diceva – deve saper parlare al cuore. I malati vanno compresi, aiutati…, confortati. Ecco, si, confortati! A volte un sorriso…, una parola… son più efficaci di una pillola’”. La signora respira a fatica. “Basta mamma, sei stanca”. “Lasci, lasci che parli… le farà bene”. Lei annuisce e riprende il racconto: “La formazione spirituale e un forte senso del dovere, lo portavano ad amare il prossimo più di se stesso. Per lui il rispetto era un dogma e gli ammalati uguali…a prescindere dal ceto, dal censo, dall’etnia. ‘Se vogliamo essere amati – ripeteva – dobbiamo spazzar via le paure, i pregiudizi, i luoghi comuni’. Il professore – così lo chiamavano – aveva il dono di saper ascoltare e al Di Venere, ma non solo, gli volevano un gran bene. Non è un caso che gli abbiano dedicato un busto (è quaggiù…, nella sala del CUP) e una strada.
La nostra casa era aperta a tutti, soprattutto ai bisognosi che Paolo, con spirito samaritano, visitava senza compenso. Anche di domenica… se necessario! Al termine della visita prendeva carta e penna e scriveva: ‘Caro collega, ho visitato il suo assistito e vorrei procedere in questo modo… se ha dei dubbi non esiti a chiamarmi’. Era un uomo alla mano il professore…non amava gli ipocriti, i parolai, i perditempo. ‘Un buon medico – diceva – deve sapersi relazionare all’ammalato, coglierne gli umori, le disposizioni interiori… così operava quel brav’uomo del Moscati’.
Apro una parentesi. Nei confronti di quel medico mio marito nutriva una stima assoluta. Morì quando Paolo aveva sei anni ma il suo esempio, la sua vita…sono scolpiti nella storia. Basti pensare che il suo onorario era deciso dalla scritta: ‘Chi può metta, chi ha bisogno prenda’ campeggiante su un minuscolo cestino. Peccato che sia morto presto! Le radiazioni ionizzanti a cui il mio Paolo fu esposto – ai suoi tempi la protezione da quei raggi era ancora inadeguata – gli provocarono dei danni fisici irreversibili. Curato dai colleghi del suo ex reparto mai l’udii lamentarsi, e al sopraggiungere dell’ora ebbe per tutti un gesto, uno sguardo, una parola.
La medicina ha fatto passi da gigante ma mancano medici, infermieri… e i rapporti sono sempre più in crisi. Il progresso ci ha rubato la gioia di guardarci negli occhi, di scambiarci un sorriso. I telefoni squillano, i social smaniano, il nulla avanza. Il pericolo più grave non è la povertà… e nemmeno il cancro.
Il pericolo più grave è che l’uomo non dispone di anticorpi contro i mali psichici. Sono stanca, vorrei riposare. Perdonate le chiacchiere di una povera vecchia. Il Signore benedica il vostro impegno e vi rinnovi la speranza”.

Sergio Ricciuti

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